Sommario:
Premessa
Il sistema di relazioni industriali in Italia ha assistito negli ultimi anni ad una massiccia proliferazione di contratti collettivi. I dati riguardanti la contrattazione collettiva, contenuti nell’archivio del CNEL, testimoniano l’ormai consolidata “frammentazione del panorama negoziale italiano” [1].
Una frammentazione che inizialmente ha interessato le organizzazioni sindacali dei lavoratori, portando alla “rottura del fronte sindacale unitario” [2], ma che negli ultimi anni ha intaccato anche il fronte datoriale, abbattendosi sul “monopolio della rappresentanza dei datori di lavoro” [3]. Ciò ha portato alla stipula di differenti contratti collettivi, che insistono in molti casi sulla medesima categoria professionale.
Prodotto di tale situazione è l’emergere di contratti collettivi, stipulati da organizzazioni sindacali dotate di una scarsa od inesistente rappresentatività, finalizzati come recita il c.d. Patto per la fabbrica del 9 marzo 2018 “a dare “copertura formale” a situazioni di vero e proprio dumping contrattuale che alterano la concorrenza fra imprese e danneggiano lavoratrici e lavoratori” [4]. La dottrina è solita definire quali “pirata” tali contratti collettivi.
La problematica è fondamentale non solo per il corretto funzionamento del sistema di relazioni sindacali, ma anche per l’intera normativa del diritto del lavoro, nel quale vi è una continua e costante integrazione fra disposizioni legislative e disposizioni contrattuali per la disciplina di diversi istituti [5].
La tecnica del rinvio alla contrattazione collettiva
Principio tradizionale nella regolazione del rapporto tra legge e contrattazione collettiva è il binomio: derogabilità in melius ed inderogabilità in peius. Le regole di legge, disciplinanti il settore del lavoro privato, non sarebbero derogabili in peius né dal contratto di lavoro individuale né dal contratto collettivo.
Tale assunto, non esplicitamente affermato, è stato desunto dalla “natura del diritto del lavoro, che nasce come normativa protettiva dei lavoratori: da questo punto di vista, la deroga in melius non fa altro che sviluppare il programma protettivo del lavoratore contenuto nelle stesse disposizioni di legge e, dunque, non può ritenersi confliggente con esse” [6].
A partire dagli anni Ottanta si è assistito ad un frequente uso della tecnica del rinvio del legislatore alla contrattazione collettiva, “al fine di flessibilizzare il contenuto delle norme (altrimenti) imperative di legge”.
Dagli anni 2000 questa prospettiva emerge sempre più.
Conseguenza estrema di tale tecnica è l’art. 8 del d.l. n. 138 del 2011, convertito in l. n. 148/2011, che dispone:
- I contratti collettivi di lavoro sottoscritti a livello aziendale o territoriale da associazioni dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale ovvero dalle loro rappresentanze sindacali operanti in azienda ai sensi della normativa di legge e degli accordi interconfederali vigenti, compreso l’accordo interconfederale del 28 giugno 2011, possono realizzare specifiche intese con efficacia nei confronti di tutti i lavoratori interessati a condizione di essere sottoscritte sulla base di un criterio maggioritario relativo alle predette rappresentanze sindacali, finalizzate alla maggiore occupazione, alla qualità dei contratti di lavoro, all’adozione di forme di partecipazione dei lavoratori, alla emersione del lavoro irregolare, agli incrementi di competitività e di salario, alla gestione delle crisi aziendali e occupazionali, agli investimenti e all’avvio di nuove attività (1) .
- Le specifiche intese di cui al comma 1 possono riguardare la regolazione delle materie inerenti l’organizzazione del lavoro e della produzione con riferimento (2) :
- a) agli impianti audiovisivi e alla introduzione di nuove tecnologie;
- b) alle mansioni del lavoratore, alla classificazione e inquadramento del personale;
- c) ai contratti a termine, ai contratti a orario ridotto, modulato o flessibile, al regime della solidarietà negli appalti e ai casi di ricorso alla somministrazione di lavoro;
- d) alla disciplina dell’orario di lavoro;
- e) alle modalità di assunzione e disciplina del rapporto di lavoro, comprese le collaborazioni coordinate e continuative a progetto e le partite IVA, alla trasformazione e conversione dei contratti di lavoro e alle conseguenze del recesso dal rapporto di lavoro, fatta eccezione per il licenziamento discriminatorio , il licenziamento della lavoratrice in concomitanza del matrimonio, il licenziamento della lavoratrice dall’inizio del periodo di gravidanza fino al termine dei periodi di interdizione al lavoro, nonchè fino ad un anno di età del bambino, il licenziamento causato dalla domanda o dalla fruizione del congedo parentale e per la malattia del bambino da parte della lavoratrice o del lavoratore ed il licenziamento in caso di adozione o affidamento (3) .
2-bis. Fermo restando il rispetto della Costituzione, nonchè i vincoli derivanti dalle normative comunitarie e dalle convenzioni internazionali sul lavoro, le specifiche intese di cui al comma 1 operano anche in deroga alle disposizioni di legge che disciplinano le materie richiamate dal comma 2 ed alle relative regolamentazioni contenute nei contratti collettivi nazionali di lavoro (4) .
- Le disposizioni contenute in contratti collettivi aziendali vigenti, approvati e sottoscritti prima dell’accordo interconfederale del 28 giugno 2011 tra le parti sociali, sono efficaci nei confronti di tutto il personale delle unità produttive cui il contratto stesso si riferisce a condizione che sia stato approvato con votazione a maggioranza dei lavoratori.
La norma consente ai più bassi livelli di contrattazione collettiva (i c.d. contratti di prossimità, ovvero i contratti territoriali ed aziendali) di derogare alle norme imperative di legge in materie quali l’orario di lavoro e l’inquadramento dei lavoratori. Essa non ha trovato attuazione da parte delle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro.
La contrattazione collettiva nel Jobs Act
Utilizzando la tecnica del rinvio ma in chiave integrativa piuttosto che derogatoria, il Governo Renzi ha attuato i principi di flessibilizzazione con il c.d. Jobs Act. Nel decreto legislativo n. 81 del 2015 sono presenti numerosi riferimenti alla contrattazione collettiva, quale integrazione della disciplina di diversi istituti, dal lavoro a tempo parziale [7] al contratto di somministrazione [8], dal lavoro a termine al contratto di apprendistato.
I riferimenti alla contrattazione collettiva in materia previdenziale e fiscale
Anche in materia previdenziale, i contratti collettivi sono stati utilizzati dal legislatore per determinare la retribuzione da assumere come base di calcolo dei contributi, come affermato dalla l. n. 389 del 1989.
Il rispetto dei contratti collettivi è divenuto, inoltre, requisito per accedere a benefici normativi e contributivi, come recita l’art. 1 co. 1175 della l. n. 296/2006:
“A decorrere dal 1° luglio 2007, i benefici normativi e contributivi previsti dalla normativa in materia di lavoro e legislazione sociale sono subordinati al possesso, da parte dei datori di lavoro, del documento unico di regolarità contributiva, fermi restando gli altri obblighi di legge ed il rispetto degli accordi e contratti collettivi nazionali nonchè di quelli regionali, territoriali o aziendali, laddove sottoscritti, stipulati dalle organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.”
Il criterio selettivo delle associazioni sindacali
Come la lettura delle norma sopra indicate fa emergere, il legislatore nel fare riferimento ai contratti collettivi opera una precisa selezione, al fine anche di individuare anche con certezza i contenuti stessi della legislazione giuslavorista.
La tecnica normativa in esame non tende ad “impedire ex ante la sottoscrizione di contratti collettivi da parte di organizzazioni poco rappresentative, ma a riconoscere rilievo alla rappresentatività sindacale ex post” [9].
L’applicazione di criteri selettivi dei contratti collettivi non è una novità dei legislatori degli ultimi anni.
La dottrina è solita distinguere i criteri individuati dal legislatore e dalla giurisprudenza in oggettivi e soggettivi.
Mentre i criteri oggettivi guardano maggiormente all’attività svolta nell’impresa, quelli soggettivi vanno a qualificare le associazioni sindacali stipulanti.
Il criterio della rappresentatività
Fattore generalmente adoperato è la rappresentatività delle OO.SS. stipulanti i contratti collettivi, che è stata storicamente declinata in due differenti formulazioni: la maggior rappresentatività e la maggior rappresentatività in termini comparativi.
La maggior rappresentatività, utilizzata dal legislatore fin dallo Statuto dei Lavoratori ex art. 19 per riconoscere il diritto di costituire rappresentanze sindacali aziendali, è stata sostituita dalla formula “associazioni sindacali comparativamente più rappresentative”.
La nuova formulazione è stata introdotta in materia previdenziale dall’art. 2 co. 25 della l. n. 549/1995, che andando ad interpretare l’art. 1 del d.l. n. 338 del 1989[10] convertito con modificazioni con la l. n. 389 del 1989 ha affermato che:
“in caso di pluralità di contratti collettivi intervenuti per la medesima categoria, la retribuzione da assumere come base per il calcolo dei contributi previdenziali ed assistenziali è quella stabilita dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative nella categoria”.
Tale criterio selettivo oltre che in materia previdenziale è stato utilizzato dal legislatore per selezionare i contratti collettivi ai fini dell’integrazione della disciplina giuslavorista.
Ai sensi dell’art. 51 del d. lgs. n. 81 del 2015, attuativo del Jobs Act:
“ Salvo diversa previsione, ai fini del presente decreto, per contratti collettivi si intendono i contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e i contratti collettivi aziendali stipulati dalle loro rappresentanze sindacali aziendali ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria”.
La nozione di rappresentatività
tra legislazione, giurisprudenza ed accordi interconfederali
Come analizzato dalla dottrina[11], nell’ordinamento italiano si sono stratificate nel tempo molteplici nozioni di rappresentatività:
- Rappresentatività presunta o storica;
- Rappresentatività verificata: coniata dal referendum popolare che nel 1995 ha abrogato completamente la lettera a) e parzialmente la lettera b) dell’art. 19 co. 1 dello Statuto dei Lavoratori, riconoscendo conseguentemente il diritto di costituire r.s.a. alle sole organizzazioni sindacali che siano firmatarie di contratti collettivi nell’unità produttiva.
La Corte Costituzionale con la sentenza n. 231 del 2013 ha dichiarato l’illegittimità della norma “nella parte in cui non prevede che la rappresentanza sindacale aziendale possa essere costituita anche nell’ambito di associazioni sindacali che, pur non firmatarie dei contratti collettivi applicati nell’unità produttiva, abbiano comunque partecipato alla negoziazione relativa agli stessi contratti quali rappresentanti dei lavoratori dell’azienda”;
- Rappresentatività misurata: frutto del Testo Unico sulla rappresentanza siglato tra Confindustria, CGIL, CISL e UIL nel 2014. Con tale accordo le parti sociali hanno voluto colmare le lacune emerse dalla sentenza costituzionale in riferimento al perimetro della partecipazione alle negoziazioni. Sono così stati individuati “i parametri per identificare i soggetti che partecipano alle trattative:
- che raggiungano una soglia di rappresentatività del 5%, assumendo come media tra il dato associativo (deleghe relative ai contributi sindacali conferite dai lavoratori) e il dato elettorale (ottenuto in voti) espressi in occasione delle elezioni delle rappresentanze sindacali aziendali;
- che contribuiscano alla definizione della piattaforma sindacale;
- che partecipino alla delegazione trattante” [12].
Tale accordo, pur delineando un preciso quadro di misurazione, non ha ancora trovato attuazione, assumendo come evidenziato dalla dottrina [13], una “valenza squisitamente programmatica”.
Seguendo la stessa ottica il 9 marzo 2018 Confindustria, CGIL, CISL e UIL hanno firmato un ulteriore accordo intersindacale, il c.d. Patto della fabbrica, in cui “democrazia sindacale, misurazione e certificazione della rappresentanza” sono individuati come “uno dei pilastri fondamentali del modello di relazioni sindacali”.
Punto di rilievo dell’accordo è la presa di coscienza delle parti sociali della necessità della “misurazione della rappresentanza anche di parte datoriale”. È la conoscenza dei livelli di rappresentanza delle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro, l’elemento indispensabile, secondo le parti firmatarie dell’accordo, nel contrasto alla contrattazione collettiva “pirata”. Perseguendo il medesimo fine, Confindustria, CGIL, CISL e UIL affidano al CNEL il compito di effettuare una ricognizione:
- dei soggetti firmatari dei contratti collettivi, al fine di accertarne la rappresentatività;
- dei parametri della contrattazione collettivo, per consentire, se necessario, alle parti sociali di intervenire sugli ambiti di applicazione della contrattazione collettiva nazionale di categoria.
Il quadro così delineato è proprio dell’ordinamento sindacale. Le regole disegnate dalle parti sociali possono trovare applicazione solo nei confronti dei firmatari, non avendo efficacia erga omnes.
È, per tale ragione, che da più parti [14] viene sostenuta l’esigenza di una risoluzione normativa della questione.
Note all’articolo
[1] XXII Rapporto del CNEL, Mercato del lavoro e contrattazione collettiva 2020, ratificato dall’assemblea in data 12 gennaio 2021, p. 26.
[2] M. Magnani, Riflessioni sulla misurazione della rappresentanza datoriale nell’ordinamento statale e intersindacale, LavorodirittiEuropa, 2021, n. 4, p. 4.
[3] Ibidem, p. 5.
[4] Patto per la fabbrica, p. 5.
[5] M. Magnani, Riflessioni sulla misurazione della rappresentanza datoriale nell’ordinamento statale e intersindacale, LavorodirittiEuropa, 2021, n. 4, p. 2.
[6] M. Magnani, Aspetti istituzionali e prassi della contrattazione collettiva tra rinnovamento e tradizione Il rapporto tra legge e autonomia collettiva, Diritto delle Relazioni Industriali, 2017, n. 1.
[7] Art. 6 d.lgs. 81/2015:
- Nel rispetto di quanto previsto dai contratti collettivi, il datore di lavoro ha la facoltà di richiedere, entro i limiti dell’orario normale di lavoro di cui all’articolo 3 del decreto legislativo n. 66 del 2003, lo svolgimento di prestazioni supplementari, intendendosi per tali quelle svolte oltre l’orario concordato fra le parti ai sensi dell’articolo 5, comma 2, anche in relazione alle giornate, alle settimane o ai mesi.
- Nel caso in cui il contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro non disciplini il lavoro supplementare, il datore di lavoro può richiedere al lavoratore lo svolgimento di prestazioni di lavoro supplementare in misura non superiore al 25 per cento delle ore di lavoro settimanali concordate. In tale ipotesi, il lavoratore può rifiutare lo svolgimento del lavoro supplementare ove giustificato da comprovate esigenze lavorative, di salute, familiari o di formazione professionale. Il lavoro supplementare e’ retribuito con una maggiorazione del 15 per cento della retribuzione oraria globale di fatto, comprensiva dell’incidenza della retribuzione delle ore supplementari sugli istituti retributivi indiretti e differiti.
- Nel rapporto di lavoro a tempo parziale e’ consentito lo svolgimento di prestazioni di lavoro straordinario, così come definito dall’articolo 1, comma 2, lettera c), del decreto legislativo n. 66 del 2003.
- Nel rispetto di quanto previsto dai contratti collettivi, le parti del contratto di lavoro a tempo parziale possono pattuire, per iscritto, clausole elastiche relative alla variazione della collocazione temporale della prestazione lavorativa ovvero relative alla variazione in aumento della sua durata.
- Nei casi di cui al comma 4, il prestatore di lavoro ha diritto a un preavviso di due giorni lavorativi, fatte salve le diverse intese tra le parti, nonchè a specifiche compensazioni, nella misura ovvero nelle forme determinate dai contratti collettivi.
- Nel caso in cui il contratto collettivo applicato al rapporto non disciplini le clausole elastiche queste possono essere pattuite per iscritto dalle parti avanti alle commissioni di certificazione, con facoltà del lavoratore di farsi assistere da un rappresentante dell’associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato o da un avvocato o da un consulente del lavoro. Le clausole elastiche prevedono, a pena di nullità, le condizioni e le modalità con le quali il datore di lavoro, con preavviso di due giorni lavorativi, può modificare la collocazione temporale della prestazione e variarne in aumento la durata, nonchè la misura massima dell’aumento, che non può eccedere il limite del 25 per cento della normale prestazione annua a tempo parziale. Le modifiche dell’orario di cui al secondo periodo comportano il diritto del lavoratore ad una maggiorazione del 15 per cento della retribuzione oraria globale di fatto, comprensiva dell’incidenza della retribuzione sugli istituti retributivi indiretti e differiti.
- Al lavoratore che si trova nelle condizioni di cui all’articolo 8, commi da 3 a 5, ovvero in quelle di cui all’articolo 10, primo comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300, e’ riconosciuta la facolta’ di revocare il consenso prestato alla clausola elastica.
- Il rifiuto del lavoratore di concordare variazioni dell’orario di lavoro non costituisce giustificato motivo di licenziamento.
[8] Art. 31 co.1 del d.lgs. 81/2015
- Salvo diversa previsione dei contratti collettivi applicati dall’utilizzatore, il numero dei lavoratori somministrati con contratto di somministrazione di lavoro a tempo indeterminato non può eccedere il 20 per cento del numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza presso l’utilizzatore al 1° gennaio dell’anno di stipula del predetto contratto, con un arrotondamento del decimale all’unità superiore qualora esso sia eguale o superiore a 0,5. Nel caso di inizio dell’attività nel corso dell’anno, il limite percentuale si computa sul numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza al momento della stipula del contratto di somministrazione di lavoro a tempo indeterminato. Possono essere somministrati a tempo indeterminato esclusivamente i lavoratori assunti dal somministratore a tempo indeterminato. Nel caso in cui il contratto di somministrazione tra l’agenzia di somministrazione e l’utilizzatore sia a tempo determinato l’utilizzatore puo’ impiegare in missione, per periodi superiori a ventiquattro mesi anche non continuativi, il medesimo lavoratore somministrato, per il quale l’agenzia di somministrazione abbia comunicato all’utilizzatore l’assunzione a tempo indeterminato, senza che ciò determini in capo all’utilizzatore stesso la costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato con il lavoratore somministrato. La disposizione di cui al periodo precedente ha efficacia fino al 30 settembre 2022. (1)
[9] E. Fiata, A piccoli passi verso l’accertamento della rappresentatività: l’articolo 16-quater del decreto-legge n. 76/2020 ed il codice alfanumerico unico dei contratti collettivi, Diritto delle relazioni industriali, 2021, n. 3.
[10] La retribuzione da assumere come base per il calcolo dei contributi di previdenza e di assistenza sociale non può essere inferiore all’importo delle retribuzioni stabilito da leggi, regolamenti, contratti collettivi, stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative su base nazionale, ovvero da accordi collettivi o contratti individuali, qualora ne derivi una retribuzione di importo superiore a quello previsto dal contratto collettivo
[11] R. De Luca Tamajo, Le criticità della rappresentatività sindacale <<misurata>>: quale perimetro? – Rivista italiana di diritto del lavoro, 2020, n. 3.
[12] G. Santoro Passarelli, La rappresentatività sindacale dallo Statuto dei lavoratori ai giorni nostri, LavoroDirittiEuropa, 2020, n. 2.
[13] F. S. Giordano, Brevi riflessioni sulla rappresentatività sindacale: tra la nozione di sindacato comparativamente rappresentativo e le rappresentanze sindacali unitarie, Rivista Italiana del Lavoro, 2018, n. 3.
[14] Sono le stesse organizzazioni firmatarie del Patto della fabbrica ad auspicare la definizione del problema all’interno di un quadro normativo in materia.
L’articolo dell’Avv. Enzo Martino
Un articolo di attualità molto bello sul tema dei contratti “pirata” (e corsari”) è quello del nostro amico Avv. Vincenzo Martino, giuslavorista bravissimo e molto impegnato (clicca qui per andare al suo sito: www.avvocatidellavoro.eu
L’articolo sui contratti pirata si trova a questo link:
Tra “pirati” e “corsari” l’arrembaggio ai salari