A seguito della sentenza della Corte Costituzionale che ha dichiarato incostituzionale il c.d. contributo di solidarietà per gli anni 2011/13, l’ex ministro del Welfare Elsa Fornero il 12 giugno 2013 scrive una lunga lettera sulle c.d. pensioni d’oro al Corriere della Sera:
Caro Direttore,
la sentenza della Corte Costituzionale che ha sancito l’illegittimità del contributo di solidarietà a carico delle pensioni che superano i novantamila euro lordi annui, istituito dal governo Berlusconi e reso più severo dal governo Monti nell’ambito decreto «salva Italia» del dicembre 2011 (5 per cento sulla quota superiore ai novantamila euro e fino ai 150, 10 per cento su quella superiore tra i 150 e i 200mila e 15 per cento sulla parte superiore ai 200 mila), risulta difficilmente comprensibile, e non soltanto al cittadino medio.
Lo è anche per chi, come la sottoscritta, ha dovuto operare, in condizioni di emergenza, una severa riforma previdenziale nell’ambito di una strategia tesa a evitare che l’Italia cadesse nel baratro di una crisi finanziaria. Questa riforma, infatti, non è soltanto motivata da considerazioni finanziarie, ossia dalla necessità di tagliare una spesa difficilmente sostenibile dalla nostra economia, ma si fonda in misura importante su un principio di equità, in particolare tra le generazioni.
Ed è proprio l’equità che può fornire una giustificazione sociale alla severità della riforma. Le pensioni già in pagamento e quelle più vicine alla liquidazione sono infatti calcolate secondo il metodo retributivo, anziché secondo il metodo contributivo introdotto dalla riforma del 1995 per le nuove leve e per le generazioni più giovani (con anzianità fino a 18 anni) ed esteso a tutte le anzianità future soltanto con la riforma del 2011.
Il metodo contributivo implica equivalenza (attuariale, ossia tenuto conto dell’aspettativa di vita) tra contributi versati e prestazioni ricevute; il metodo retributivo, almeno così come applicato nel nostro sistema, implica invece un divario tra il valore attuariale di quanto si riceve e il valore complessivo dei contributi versati. Questo secondo valore è tipicamente inferiore (e talvolta molto inferiore) al primo. Visto dalla parte del pensionato, il divario può essere considerato un “regalo”; visto dalla parte di chi ne sostiene i costi, ossia dalla parte delle generazioni giovani e future, equivale di fatto a un’imposta.
Ora, se questo è vero per la generalità delle pensioni retributive, la misura del “regalo” è tanto maggiore quanto più elevata è la retribuzione finale del lavoratore. In altre parole, chi ha una retribuzione finale più elevata riceve un vantaggio pensionistico maggiore, solitamente a carico di chi sta peggio di lui. In ciò sta la redistribuzione contraria a ogni senso di equità sociale della nostra formula retributiva, ma anche la differenza tra il godere di una pensione elevata e di una retribuzione elevata, quest’ultima presumibilmente collegata a una prestazione lavorativa considerata adeguata.
La sentenza della Corte fa infatti riferimento non tanto all’illegittimità del contributo di solidarietà bensì al fatto che questo stesso contributo non sia stato applicato anche ai redditi da lavoro più alti; essa rileva il mancato rispetto del principio di eguaglianza relativamente agli altri redditi di lavoro rimasti indenni dal prelievo, a parità di importo. Implicitamente si afferma che, se la retribuzione è il corrispettivo di una prestazione di lavoro, la pensione dovrebbe essere il corrispettivo dei contributi versati sul reddito di lavoro. Ma ciò non accade, come ho cercato di spiegare, per le pensioni retributive che premiano indebitamente (cioè in modo sostanzialmente slegato dai contributi) proprio i redditi più elevati e non sono pertanto figlie di un regime di corrispettività, bensì di una logica di privilegio.L’ingiustizia di questo regalo a favore di chi è già più ricco è alla base del contributo di solidarietà, ritenuto illegittimo dalla Corte.
La differenza economica sostanziale tra i redditi da lavoro e le pensioni retributive rende peraltro difficile, e anche amaro, comprendere le ragioni di un pronunciamento che rischia di minare il senso di equità sociale dell’intera riforma pensionistica. È peraltro auspicabile che si trovi il modo di superare i rilievi costituzionali valorizzando proprio quegli aspetti differenziali nella formazione del reddito da lavoro e della (componente retributiva della) pensione che rendono trasparente la derivazione di quest’ultima da un trasferimento a carico dei lavoratori attivi, e in particolare di quelli più giovani.
Ciò poterebbe realizzarsi con un intervento forte e deciso sulla quota retributiva che eccede ciò che sarebbe spettato in base al principio della corrispondenza con i contributi versati.