Sommario:
Di male in peggio!
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Abbiamo ora finalmente la motivazione della sentenza, accompagnata da un Comunicato Stampa della Corte del 1° dicembre 2017.
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ANDREMO A STRASBURGO!
Troppe sono state le violazioni del diritto al giusto processo in questa vicenda:
- La violazione della precedente sentenza della Corte, che costituiva un “giudicato costituzionale”.
- La concessione di soli 5 minuti ai difensori per la discussione della sola nostra causa.
- La riduzione del Collegio giudicante (da 13 a 11 giudici) a seguito del differimento della nostra udienza al pomeriggio.
La motivazione della sentenza 205/17 della Corte sul blocco della perequazione: di male in peggio.
La Corte Costituzionale, il 24 ottobre 2017, ha salvato il blocco della perequazione delle pensioni, che prima invece aveva dichiarato incostituzionale.
Il blocco della perequazione
Tale blocco fu introdotto dalla Legge Fornero e venne dapprima dichiarato incostituzionale dalla Corte con la sentenza n. 70 del 2015, ma poi venne sostanzialmente reintrodotto dal Decreto Legge Renzi Poletti n. 65 del 2015, ed infine adesso è stato contraddittoriamente salvato dalla Corte.
Ieri è stata depositata motivazione della sentenza n. 250/17, che aggiunge ulteriore amarezza a questa brutta vicenda.
L’ udienza del 24 ottobre 2017
Partiamo da quanto avvenuto all’udienza del 24 ottobre 2017.
Erano presenti all’ udienza 13 Giudici, ma alla nostra discussione hanno poi assistito solo in 11, perché la nostra causa è stata spostata al pomeriggio.
La nostra causa era iscritta al numero 6 del ruolo di udienza, ed al mattino i giudici erano appunto 13. Nel corso della mattinata erano già state discusse ampiamente le prime cinque cause, con interventi degli avvocati che sono durati anche 20 minuti. Quando è arrivato il momento della nostra causa, ci è stato comunicato il suo differimento al pomeriggio, poiché erano state anticipate le altre cause successive, ovvero la numero 7, 8 e 9.
Alle 16:00 abbiamo finalmente ripreso l’udienza, ma nel frattempo i giudici da 13 erano diventati 11, per l’assenza di due giudici che pure erano presenti al mattino (Modugno e De Pretis).
Prima di aprire la discussione il Presidente ha mostrato agli avvocati una campanella, affermando di non averla mai usata prima ed ha annunciato che avrebbe concesso solo cinque minuti per ogni difensore, decorsi i quali avrebbe suonato la campanella interrompendo l’avvocato.
Il Presidente ha applicato questo criterio in modo rigidissimo, addirittura troncando ai difensori la frase senza neppure consentire di terminarla (vedi il video sopra).
Si è trattato di un rigore che a tutti è parso eccessivo, soprattutto se confrontato con l’andamento dell’udienza del mattino.
Vengono in mente le parole che il grande giurista Piero Calamandrei, padre costituente, nel suo bellissimo libro “Elogio dei Giudici scritto da un avvocato”, scrisse tanti anni fa: “Solo là dove gli avvocati sono rispettati, sono onorati i giudici; e dove si scredita l’avvocatura, colpita per prima è la dignità dei magistrati”.
Aggiungiamo ancora che non vi erano neppure motivi di particolare ristrettezza dei tempi, considerato che i giudici della Corte si sarebbero comunque fermati a pernottare a Roma nelle loro stanze personali all’interno del Palazzo della Consulta, dovendo poi partecipare l’indomani ad altra udienza già fissata in camera di consiglio.
La Camera di Consiglio
Per di più nel pomeriggio del 24 ottobre, dopo l’ udienza, la Corte neppure si riunì per deliberare la sentenza sulla perequazione, ma emanò un apposito comunicato in cui veniva precisato che la deliberazione della sentenza era slittata all’indomani.
L’ indomani mattina (25 ottobre) la Corte fu impegnata dalle ore 9,30 nell’ altra udienza già fissata in camera di consiglio, nella quale erano iscritte ben cinque cause. Ci si sarebbe quindi aspettato che la deliberazione della sentenza sulla perequazione avvenisse nel pomeriggio: invece verso le 13:00 venne emanato il comunicato stampa con cui la Corte comunicava di aver già respinto le 15 complesse ordinanze dei giudici sul tema del blocco della perequazione.
Naturalmente a tale deliberazione poterono partecipare solo 11 giudici su 13, cioè i soli presenti nel pomeriggio del 24 ottobre alla discussione.
Non passiamo sapere quanto tempo è stato dedicato alla discussione in camera di consiglio sulla perequazione, ma è ipotizzabile che se questa è durata un paio d’ore (il comunicato è all’ incirca delle ore 13), ciascun Giudice ha parlato mediamente solo circa 10 minuti per una questione così complessa, in cui vi erano da affrontare numerosi e gravi problemi giuridici.
Si doveva discutere sia della esistenza della precedente sentenza della Corte che già aveva dato ragione ai pensionati, sia del contrasto con il diritto europeo, e sia infine occorreva analizzare i costi della sentenza senza neppure poter disporre di conteggi aggiornati sul bilancio pubblico (la Corte disponeva infatti solo dei vecchi conteggi del 2015, che erano ormai superati perché gli importi dell’anno 2012 erano ormai andati in prescrizione ed inoltre secondo l’ INPS per tutti coloro che non avevano fatto causa si era ormai verificata la decadenza).
Ma anche secondo questi vecchi conteggi del 2015 il costo annuo per lo Stato sarebbe stato comunque di 3,8 miliardi, quando gli 80 euro del Governo Renzi ne costano annualmente 6,1 e certamente non ci hanno portato fuori dall’ Europa.
Le motivazioni della sentenza
Il primo ostacolo imbarazzante che la Corte doveva risolvere era quello della sua precedente sentenza che dava ragione ai pensionati (sent. 70/15).
È assai evidente che la Corte, a seguito della elezione dei nuovi giudici, non condivideva più quella sentenza.
Senonché questo la Corte non voleva dirlo, pur dovendo fare i conti con l’articolo 137, comma 3, Cost., secondo cui “contro le decisioni della Corte costituzionale non è ammessa alcuna impugnazione”.
La Corte aveva anche ben presente che dal 1963 aveva sempre affermato che, dopo una sua sentenza, il Parlamento ha il divieto di rimettere mano alla legge dichiarata incostituzionale. Si chiama principio del “giudicato costituzionale”, ed è codificato nell’ art. 136 Cost.
Addirittura perfino il progetto di riforma costituzionale del Governo Renzi ribadiva specificamente al nuovo art. 77 che il Governo non poteva emanare alcun decreto-legge per “ripristinare l’efficacia di norme di legge o di atti aventi forza di legge che la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimi”. Invece è proprio quello che ha fatto il Governo Renzi con il decreto legge 65 del 2015.
Cosa poteva fare allora la Corte nel giudicare questo decreto legge?
Vi erano due alternative.
O si cancellava improvvisamente il principio del giudicato costituzionale, ammettendo esplicitamente che d’ora in poi il Governo potrà intervenire su una sentenza della Corte, oppure si doveva in qualche modo negare che la Corte nella sua prima sentenza del 2015 avesse affermato proprio ciò che aveva scritto, e che tutti avevano ben capito.
La Corte ha scelto questa seconda strada: la Corte oggi non ha affatto detto d’aver cambiato idea rispetto alla sua prima sentenza di due anni fa, ma ha negato che la prima sentenza avesse quel contenuto. Quindi invece di ribadire quello che aveva scritto, cioè che la sua prima sentenza aveva semplicemente dichiarato illegittima la Legge Fornero, oggi ha invece affermato che quella sentenza era un semplice invito al Governo perché la scrivesse meglio.
Ma questo non è affatto vero !!
Due anni fa tutti avevano capito benissimo che la Corte aveva chiaramente dichiarato illegittima la legge Fornero, e non aveva semplicemente rivolto un bonario consiglio al Governo.
Infatti anche chi due anni fa fu molto critico verso la sentenza, dovete ammettere che la Corte non aveva affatto rivolto un semplice “monito” al legislatore, ma era invece pesantemente intervenuta annullando il blocco della perequazione 2012/13.
Se si va a rivedere il Corriere della Sera del 12 maggio 2015, si leggerà che un autorevole ex Giudice Costituzionale, il Prof. Sabino Cassese (ex ministro), nell’esprimere la sua contrarietà alla prima sentenza della Corte, la criticò fortemente proprio perchè NON aveva dato al Parlamento nessun “monito” e nessuna delega: “La Corte avrebbe potuto ripetere il monito già fatto in precedenza in materia di pensioni. Avrebbe potuto fare una sentenza chiamata, nel gergo, additiva di principio, cioè stabilendo il principio della rivalutazione anche per le pensioni di livello pari a tre volte la minima, ma lasciando a governo e a Parlamento il compito di scegliere come provvedere“.
Quindi il Prof. Cassese si lamentava proprio del fatto che nel 2015 la Corte non avesse conferitto aòlcuna delega al Parlamento..
Al contrario la Corte, per contraddire la sua prima sentenza n. 70 del 2015, adesso afferma addirittura che:
“Tale sentenza demandava al legislatore un intervento che, emendando questi vizi, operasse un nuovo bilanciamento dei valori e degli interessi costituzionali coinvolti, nel rispetto dei «limiti di ragionevolezza e proporzionalità», senza che alcuno di essi risultasse «irragionevolmente sacrificato».”
Non è affatto vero !
Nessuno può rimettere in discussione una sentenza della Corte, e la migliore conferma viene dalla Corte stessa.
Quando la Corte nella sentenza. 116/13 annullò il “contributo di solidarietà” sulle c.d. pensioni d’oro per gli anni 2011- 2013 (e lo fece sostanzialmente per una sorta di vizio di forma, poichè i soldi andavano al bilancio dello Stato anziché all’ INPS) non permise assolutamente poi al Governo di rimetterci le mani sopra, correggendo la legge. Il Governo non toccò gli anni 2011/13 dichiarati incostituzionali, ed ordinò all’ INPS la restituzione delle somme dovute ai pensionati. Poi il Governo stabilì che da quale momento (anni 2014/16) i futuri prelievi avrebbero dovuto essere destinati all’INPS anziché allo Stato, e la stessa Corte approvò (sent. 173/16) questa modifica, mantenendo salvi gli anni precedenti (2011/13) già dichiarati incostituzionali.
Invece questa volta la Corte, per la prima volta ha permesso al Governo di toccare gli anni 2012/2013 già dichiarati illegittimi, sminuendo la portata della sua prima sentenza.
Questa la verità dei fatti, e non possiamo certo tacere solo per il rispetto che abbiamo sempre portato alla Corte.
Dobbiamo sempre osservare l’antico detto: amicus Plato, sed magis amica veritas (“sono amico di Platone, ma sono ancora più amico della verita”).
Ma non è avvenuto solo questo.
La Corte ha cambiato idea anche nel merito della questione, quello sulla lamentata violazione degli artt. 3, 36 e 38 Cost.
Ma ancora una volta non si vuole ammetterlo.
Oggi la Corte afferma che le pensioni di oltre sei volte la minima non hanno “molto sofferto”, pur avendo perduto per sempre il 5% della loro pensione. Si tratterebbe di poca cosa che non intaccherebbe il tenore di vita degli interessati.
Senonchè va ricordato che solo un anno fa, nel 2016 la Corte nella sentenza 173/16 aveva invece affermato che non si poteva decurtare a lungo il 5% della pensione, poichè questo prelievo deve “essere comunque utilizzato come misura una tantum“, poichè “l’incidenza sulle pensioni (ancorché) “più elevate” deve essere contenuta in limiti di sostenibilità e non superare livelli apprezzabili”. La sentenza era stata emessa per le c.d. pensioni d’oro (quelle superiori a 14 volte la minima, e quindi superiori a 90 mila Euro l’anno).
Tirando le fila, quindi secondo la Corte:
– è lecito prelevare per sempre il 5% ai pensionati sopra le 6 volte la minima (sentenza odierna 250/17);
– Invece per i pensionati con oltre 14 volte la minima NON è lecito prelevare per oltre tre anni lo stesso 5% (che deve invece restare “una tantum”): sent. 173/16.
Ma quale sarebbe la differenza? Come si giustifica questa assurda disparità?
Solo con la “ragion di stato”, ma non con il diritto.
La sentenza sui “ricchi” (oltre 14 volte la minima) costava poco: solo 84 milioni, perchè i “ricchi” sono pochi.
Invece i pensionati “normali” che chiedevano la restituzione dello stesso 5%, sono tanti e costavano 3,8 miliardi,
Per avere la prova di questi dati economici, vai all’ apposita pagina (clicca qui).
Allora per i pensionati “normali” la legge improvvisamente è diventata legittima: tocca a costoro salvare la patria, poiché i poveri guadagnano poco, ma sono in tanti.
Ce n’è abbastanza…..
Che fare?
Ci dispiace, ma si va fuori di qui: si va in Corte Europea.
Pubblichiamo qui il testo della sentenza n. 250/17 del 1° dicembre 2017.
Per esaminare il testo annotato della sentenza n. 250/17 clicca qui
Per scaricare in PDF il testo, consigliamo la lettura di una versione più “leggera” di 15 pagine (clicca qui) con la sola parte in diritto sul merito della questione (di sole 15 pagine).
Per leggere la versione integrale della sentenza 250/17 clicca qui. (Si tratta di ben 54 pagine).
Il link al sito della Corte Costituzionale si trova cliccando qui.
La sentenza è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale mercoledì 6 dicembre 2017 (clicca qui).